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Giù nello scarico

17 febbraio 2012 - Tabagista (illustrazione Biani)

giù per lo scarico

Sono in un bar.
Un improvviso bisogno fisiologico mi distoglie dai miei pensieri:
Mi sto pisciando.
Ho assunto una posizione da deficiente, mi contorco, cammino a fatica, sudo, mi faccio largo tra la gente a gomitate.
Sto per straripare, la mia vescica sarà il Vajont ma senza uno spettacolo di Paolini.
Non trovo il bagno. Gli argini stanno per cedere. Nel locale risuona incurante musica jazz.
“Bene, questa è New Orleans prima di Katrina” penso.
Trovato. Manca poco. Eccomi dentro. Sono in una strana posizione, mezzo accovacciato,
sembro un marine mentre fa irruzione nel bagno di Bin Laden.
Il bagno degli uomini è occupato, quello degli handiccapati no.
O meglio, un tizio in sedia a rotelle sta per entrare.
In questo momento me ne fotto di tutta la sensibilizzazione sorbita ai tempi della scuola elementare,
di sicuro piscerò pure il senso di colpa.
Cammino come un Jerry Lewis politicamente scorretto, sono ridicolo, supero il malcapitato che accenna una protesta, poi mi vede e ha compassione. Posso passare. Sono dentro.
Piscio così tanto che dopo pochi secondi non c’è più traccia di peli pubici nel fondo del water,
piscio come se fossi un nuovo idrante della thyssen, piscio come se stessi battezzando milioni di Magdi Allam, un’arca di Noè di peli pubici, carta igienica e mosche non resiste alla mia piscia universale.
Piscio per un sacco di tempo, alla fine non ricordo neanche per quale motivo mi trovo nel bar.
La pancia non mi fa più male, sono libero, ora so cosa prova una donna che partorisce,
un libico che si libera di Gheddafi, so cosa prova Adriano Sofri che esce di galera.
Quando tiro l’acqua mi sembra di scaricare persino il senso di colpa.
Sono libero!
Esco dal bagno. Il tizio sulla sedie a rotelle mi vede sereno, non sembra più che io sia affetto da
distrofia muscolare. Mi aggredisce convinto che fingessi per fottergli il bagno.
Sbraita contro di me, inveisce sempre più violentemente.
“Prima di pisciare ero tecnicamente handiccapato, ora sono a posto” cerco di spiegargli.
Evidentemente lo scarico si è otturato con il mio senso di colpa.
Fuggo senza nemmeno lavarmi le mani prima che il tizio improvvisi un Telethon per uccidermi.
“Forza, donate quanto potete, ho bisogno di un fucile per uccidere questo insensibile”.
In questo momento il mio cruccio più grande è non essermi lavato le mani.

Torno a casa e vado subito a farmi una doccia perchè fuori ho toccato maniglie, rubinetto del bagno
e ho tirato l’acqua.
Sull’autobus una prostituta nigeriana mi ha contagiato uno sbadiglio, devo ricordarmi di farmi il test dell’hiv.
Ho una concezione un po’ nazista dell’igiene.
Ma un nazismo isolazionista senza invasioni di sorta che comportino contatto fisico.
Sono sotto la doccia e penso a Janet Leigh in Psycho mentre viene assalita alle spalle da Anthony Perkins.
Ho letto che l’attrice era ossessionata da questa scena, anche dopo le riprese le rimase la fobia delle docce, quasi come un ebreo sopravvissuto alle docce dei lager.

Mi lavo i denti, sputo l’acqua in direzione di qualche capello nel lavandino per farlo finire nello
scarico e provo lo stesso senso di pulizia e liberazione che può provare una tizia che getta un feto nello scarico del water.

E dopo questa metafora idiota nello scarico ci finisco pure io.

Mi guardo intorno, comincio a canticchiare Born Slippy degli Underworld.
Nella fogna un coccodrillo sta masticando un feto, sopra il tombino, nella realtà, un tizio
con una lacoste urla contro la ragazza perché vuole abortire.
Tra i liquami vedo Michele Misseri con un cappello da pescatore che traghetta come Caronte:
i piccoli Samuele e Tommy, Meredith Kercher, Melania Rea, Chiara Poggi e Sarah Scazzi.
Il comandante Schettino è in un’altra zattera e traghetta Erika e Omar, Anna Maria Franzoni, Amanda Knox, Raffaele Sollecito, Alberto Stasi e Sabrina Misseri.
Nella zattera c’è pure una ragazza moldava, ma non verrà registrata in questo racconto.
Sono come un turista giapponese che visita le fogne.
Sto per fare una foto ma me lo proibiscono, ogni personaggio ha i diritti di immagine riservati, e ora non ho tempo per accordarmi con i loro agenti.
Le due zattere si incrociano, Schettino accenna un inchino, cade in acqua e tutti scoppiano a ridere.
Il comandante mentre si tiene ad una scialuppa vede galleggiare il corpo di Alfredo Rampi, la lapide di Mauro De Mauro, tre false sculture di Modigliani e una telecamera sfasciata.
Le due zattere si muovono, una alla mia destra, l’altra alla mia sinistra, io sono fermo, ma ho come
l’illusione di muovermi. Invece sono fermo, non ho il permesso di recitare nello spettacolo del dolore.
Al massimo posso stare tra il pubblico, ma sono rimasti solo posti in piedi.
Dalla superficie si sentono i cittadini urlare: i due minuti d’odio del Grande Fratello di Orwell.
Sbraitano contro i peggiori assassini.
Intanto io penso che potrei arricchirmi organizzando dei viaggi guidati nelle fogne. Interi weekend dell’odio.
In superficie si vendono souvenir dei disastri, vanno a ruba le parti originali della Concordia dentro
bottiglie di vetro.

La realtà sovrastante è un’immensa bottiglia molotov con dentro omini neri che sfasciano vetrine e incendiano auto.
Lo Stato garantisce un reddito minimo e un’educazione ai poveracci ma più che dal Welfare State
di Beveridge, sembra ispirato dal musical “My fair Lady”, nel quale un professore scommette di
trasformare una ragazza povera ed ignorante in una donna borghese, colta e civile.
La città molotov è morta ma un eterno fuoco fatuo la incendia.
I governanti sono asserragliati nel palazzo del governo vicino al monumento dello straccio
imbevuto di benzina.
I contestatori sono stati infilati con precisione dentro la molotov come un criceto su per il culo di
un ricco borghese annoiato.
Sono stati minuziosamente infilati uno ad uno con la pazienza di un giapponese decoratore di chicchi di riso, o nel caso di Fukushima, chicchi di riso decoratori di minuti giapponesi.
I giornalisti raccontano tutto ben protetti dietro a sacchi di sabbia.
Gli omini neri stanno devastando la città, politici agonizzano al suolo. Si lamentano: “Ah, che dolore!” dice uno. “La mia gamba…” dice un altro, “Ahi, non mi interrompa, io non l’ho interrotta!” ribatte il primo.
Se solo alzassero gli occhi, questi omini, figuranti violenti, scimmiette di giornalisti e politici,
si renderebbero conto di vivere dentro una grande bottiglia.
Io dal canale di scolo me ne rendo conto, a volte si ha un prospettiva completa osservando tutto dal
basso, non solo dall’alto.
E’ quando uno sta dentro, in mezzo a tutto, che la percezione dell’insieme va a farsi fottere.
Ecco, sale l’inquadratura, la città è una molotov di plastica nell’ufficio del Ministro degli interni
e un cane ci sta pisciando sopra.

Proseguo il viaggio giù, nel canale di scolo.
Mi ritrovo in un’asettica piattaforma. Stranamente c’è un buon profumo.
Un reduce in sedia a rotelle appena tornato dall’Afganistan intrattiene dei vecchi autori
satirici in cerca di ispirazione.
La loro scimmietta ammaestrata muove la sedia a rotelle a ritmo di musica, veloce, sempre più veloce. I comici professionisti dell’empatia battono le mani a tempo, ossessivi e meccanici come un attore porno che penetra la collega.
Il reduce si dimena al ritmo dei loro applausi sempre più veloci come un Bob Hope ubriaco, poi stremato cade a terra.
Le notizie al neon incuranti scorrono nel sottopancia del reduce:
“In Libia 2, 3, 4 morti…”
Il reduce è a terra, cerca di risalire sulla sedia, nessuno dei comici lo aiuta, “vorrà farcela da solo”
pensano.
I comici con il senso civile scrivono fluviali, ispirati, le loro argute metafore con la cavia ancora
a terra:
“Nelle strade della Libia il sangue sta cessando di scorrere, gli imprenditori occidentali non aspettano che finisca di scorrere e penetrano famelici.
Se la Libia fosse una vagina durante il ciclo agli imprenditori almeno brucerebbe un po’ la coscienza”.

Gli autori non sono abituati a portare la cravatta, soffocano.
Si complimentano tra loro, si masturbano a vicenda.
Alcuni muoiono per asfissia autoerotica come David Carradine.

Uno degli autori si ferma per un attimo e pensa: “Vorrei scrivere mentre Dio in persona balla sul palco”
Si rende conto che in quel caso non saprebbe che scrivere.
Come un cane al cospetto di Dio, non troverebbe di meglio che odororarGli il buco del culo.
OdorarGli, non adorarGli: il suo ego non glielo permetterebbe.
Il buco del culo di Dio è immacolato, come quello di un’attrice porno dopo cento sedute di sbiancamento anale.

Le cavie si susseguono sul palco una dopo l’altra:
reduci di guerra, malati di cancro, celebrità morte, politici corrotti, puttane di regime,
giornalisti prezzolati, vittime di terremoti, preti pedofili, coloni israeliani, kamikaze.
La vita, la sofferenza umana è il loro circo.
La donna vittima di violenza domestica è la loro donna barbuta, il bambino vittima di pedofilia è il loro nano superdotato, il kamikaze disperato è il loro nano sparato da un cannone, il magistrato ucciso dalla mafia è il loro clown con il naso rosso. In sottofondo “Ai si te pego” cantata da De Andrade, cugino portoghese di De Andrè.
Mentre tutto brucia, loro si godono lo spettacolo e dalle loro trincee di lusso sgranocchiano pop corn.

Sul palco della piattaforma viene proiettato un filmato:
Un giudice percorre l’autostrada a bordo della sua auto.
Un tizio non lontano, seduto in una poltrona sopra l’Etna sta per premere il pulsante rosso di un telecomando.
Preme il pulsante rosso.
Ora nel filmato ci sono io che guardo la tv.
Nella tv appare il naso rosso di un clown, prendo il telecomando e cambio canale. In un dibattito
televisivo Cuffaro inveisce contro Falcone, politici che non conosco litigano tra loro su un ring,
dopo ogni round sale una bionda sculettante che regge un cartello con il numero dei morti aggiornato.
Durante le due ore della trasmissione la gente a casa partecipa allo sdegno, all’indignazione civile, sfoga la rabbia, poi si rammenta della propria impotenza e come nel finale del Truman Show dice:
“Che danno adesso?” “Non so, dov’è la guida tv?”
Su un altro canale danno un film di Francesco Rosi con Beluschi, riconosco che è ambientato in Sicilia, premo di nuovo il telecomando e sento un’esplosione, non capisco, cambio di nuovo canale,
danno “La vita secondo Jim” sempre con Beluschi.
Mi affaccio dalla finestra e vedo un cratere nell’autostrada. Il cratere è pieno di palline colorate.
I bambini che passano di lì prendono una pallina a caso, la aprono e leggono il bigliettino.
In ogni biglietto c’è una frase contro la mafia:
“La mafia fa schifo”, “La mafia è una montagna di merda”, “Adesso ammazzateci tutti”, eccetera,
un bigliettino dice davvero “Eccetera”.
Un blogger nota che il cratere sembra lunare. Dubita che un uomo sia mai morto in quel cratere.
Un altro blogger dice che un volontario venne fatto esplodere con la sua navicella per vedere l’effetto che faceva.
Era solo una cavia, grazie alla quale iniziò l’esplorazione della seconda Repubblica.

Continuo a camminare nei bordi della fogna.
Mi sento come Pasolini in uno zoo di notte mentre osserva dei ragazzi di vita dentro le gabbie.
Ma mi ricordo chi sono, al massimo potrei insultare quei ragazzi da dentro una macchina con degli amici sbronzi.
Finalmente vedo lo sbocco al mare.
“Dannazione, queste fogne sono un labirinto! Al confronto il labirinto del minotauro, o quello del giardino di Shining sono i labirinti che trovi nelle scatole dei cereali.”
C’è un cartello con su scritto “Uscita”, la freccia indica un ascensore circondato da un’aura luminosa.
L’addetto all’ascensore mi dice che peso troppo, devo lasciare qualcosa.
“Lo so bene”, rispondo. Mi dirigo verso la rupe e lancio nel vuoto quel masso pesante che è la mia coscienza.
In quel masso c’è tutto: libri letti, esperienze profonde e fugaci, sensi di colpa, tutta la
mia idiozia, praticamente ci sono io.
Entro nell’ascensore, un tizio in sedia a rotelle vuole salire, le portine si stanno chiudendo,
fingo di premere un pulsante per bloccarlo, guardo il tizio con espressione fintamente desolata mentre l’ascensore si chiude. Ho sempre detestato condividere gli ascensori.
“Ehi, qualcosa di me è rimasto!”

Sono nel bar.
Sento i soliti discorsi assurdi:
“Una mia amica sordomuta ha letto il labiale dell’urlo di Tardelli durante i mondiali dell’82.
Mi ha assicurato che Tardelli urlò: Negli elenchi della p2 c’era pure un comunista”
“Un mio amico che lavora a La Stampa mi ha detto che quando Paolo Calabresi ha saputo della liberazione di Sofri, ha preso la velina dell’Ansa, l’ha accortocciata e l’ha buttata dalla finestra”
“La moviola in campo e il suo mettere in discussione la parola dell’arbitro è figlia della cultura protestante”
Penso: “Lo sbocco naturale della fogna non è il mare, ma questo bar”
Dico a voce alta: “Ma perché cazzo abbiamo dovuto comprare Palombo?”
E comincia la discussione.

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