L’uscita dalla crisi? In fondo a sinistra
L’uscita dalla crisi? In fondo a sinistra
La razione di miseria imposta ai popoli portoghese, greco, italiano, spagnolo e, progressivamente, a tutti i popoli europei, non basterà a fermare la caduta di rendimento del capitale finanziario, per cui serviranno altre manovre finanziarie che spingeranno sempre di più verso una condizione di insopportabilità dei sacrifici imposti ai proletari.
Ormai il capitalismo non ha più nulla con cui tacitare la protesta sociale, anzi, per sopravvivere è costretto ad estorcere ricchezze in dosi sempre maggiori. Se il presidente Obama è costretto a raddoppiare i fondi dell’assistenza sociale per finanziare sottobanco i grandi supermercati dei distretti popolari statunitensi al fine di evitare esplosioni sociali, se in Europa si procede all’abolizione di ogni copertura di welfare, se neppure uno solo dei grandi economisti borghesi è stato in grado di prospettare un modo per uscire dalla crisi, il processo di disfacimento totale del capitalismo ha una sua ragion d’essere ed è l’irrazionalità del capitalismo rispetto alle ragioni dell’intera umanità.
Oggi la miseria obbligatoria imposta dal proconsole della BCE per l’Italia, Mario Monti, al solo fine di garantire il pagamento degli interessi del debito pubblico italiano al capitale finanziario internazionale può valere qualche settimana di ripresa dei titoli italiani. Più del 97% di questi titoli sono incettati dalle banche che esigono i pagamenti, pena il default: sono le grandi banche mondiali, cui la BCE e le banche italiane sono consociate.
Di ripresa nemmeno l’ombra, anzi prosegue la liquidazione sistematica dell’industria e del piccolo commercio. La crisi abbatte chi non è abbastanza forte da resisterle: si contano già migliaia di piccoli esercizi commerciali chiusi con relativo numero di disoccupati. Questa ecatombe forza il mercato in direzione dei grandi gruppi commerciali, i grandi supermercati dove i prezzi sono stabiliti nell’ambito dei commerci internazionali.
Ci avviamo verso un commercio con forti connotazioni autocratiche, verso cui i consumatori non dispongono di alcun mezzo di influenza e contrattazione. Al momento i grandi centri commerciali mantengono i prezzi al di sotto di quelli del piccolo commercio, fa parte della strategia per liquidare quest’ultimo e la quantità di merci vendute assicura ai grandi gruppi margini soddisfacenti di profitto, dato anche che possono servirsi di lavoro precario a basso costo. Quando essi avranno imposto condizioni di monopolio, allora potranno esercitare tutta la loro forza per spremere i consumatori.
Il piccolo commercio è stata una delle attività fondamentali della piccola borghesia urbana. Le sue attuali condizioni di reddito non sono dissimili da quelle dei proletari. Ma gran parte della sua sopravvivenza dipende dall’evasione fiscale sistematica, da essa concepita come lotta di sopravvivenza contro lo Stato e la concorrenza. Essa è oggi un rimasuglio di ciò che era quando il fascismo la mobilitò contro il movimento operaio.
Crollata l’illusione berlusconiana in cui essa si riconosceva completamente, oggi la piccola borghesia urbana si trova sul baratro della sua scomparsa come ceto sociale. Il capitale finanziario la sacrifica per acquisire il potere di monopolizzare i commerci e utilizzarlo come forma di controllo e pressione sociale. E’ noto che i capitali dei grandi gruppi commerciali sono consociazioni internazionali gestite dalle banche.
E’ evidente che per gli ultimi residui della piccola borghesia urbana e commerciale le prospettive future sono uno status di proletarizzazione, disoccupazione, precarietà. Ma bisogna stare attenti, poiché è proprio da questi ambienti sociali che sta riemergendo il pericolo del complottismo, dell’antisemitismo di ritorno, del razzismo contro gli extra-comunitari.
La crisi odierna è inequivocabilmente dovuta a fenomeni di sovrapproduzione e sottoconsumo, in sostanza deriva da una contrazione dei mercati che è un effetto della variazione della morfologia sociale.
L’enorme rigonfiamento della massa proletarizzata, con la riduzione di gran parte dei ceti medi alla condizione salariata, significa che non ci sono abbastanza compratori per le merci: il proletariato non può ricomprare tutte le merci che esso stesso ha prodotto. Ma ciò rappresenta un’antinomia del capitalismo, dato che non può esistere una società composta esclusivamente da borghesi e proletari.
Di fronte alla proletarizzazione forzata della piccola borghesia urbana, il proletariato non può più combattere con gli strumenti, ormai anacronistici, della democrazia parlamentare borghese, un nemico di classe che ha finalmente gettato la maschera, uscendo allo scoperto e ponendosi direttamente al vertice di Stati come Italia e Grecia.
Un’analisi della situazione che sia attendibile, onesta e coerente, non può non generare una presa di posizione ferma ed intransigente di fronte all’inasprimento della crisi e alle soluzioni “lacrime e sangue” adottate dai governi in un quadro capitalistico.
Governi che non sono più condizionati in modo occulto e latente, come succedeva all’interno dei precedenti scenari parlamentari, da lobby che fanno capo alle grandi banche d’affari e all’alta finanza, ma sono un’emanazione diretta e palese del sistema capitalista, poiché al vertice di Stati come l’Italia e la Grecia si sono ufficialmente insediati regimi guidati da tecnocrati ed alti funzionari del potere bancario e finanziario mondiale. Su questo punto non si può obiettare alcunché, a meno che non si voglia negare la pura evidenza.
Da sempre i parassiti della politica difendono strenuamente la loro inutile casta. A partire dal secondo dopoguerra, accusano i propri detrattori di “qualunquismo”. Negli ultimi tempi la chiusura autoreferenziale dei politici si è trascinata fino alle estreme conseguenze, attivandosi per neutralizzare la cosiddetta “antipolitica” e sfogando i propri rancori contro i vari movimenti di contestazione.
L’istinto di autoconservazione della Casta resta fortissimo, ma l’insediamento del cosiddetto “governo tecnico” ha spiazzato i suoi “sacerdoti”: l’ascesa di Monti a Palazzo Chigi è stata caldeggiata dagli stessi politici, inclusi quelli che fingono di opporsi per evidenti ragioni elettoralistiche.
In un quadro di crescenti ingiustizie e diseguaglianze sociali, è inevitabile che le proteste, frutto della disperazione dilagante, non saranno più gestibili con gli strumenti tipici della legalità costituzionale e della democrazia liberale borghese, e da semplici movimenti di indignazione e contestazione pacifica e non violenta, potranno assumere la forma delle rivolte o dei tumulti di massa, ovvero una veste insurrezionale.
Per cui serve la formazione di un blocco sociale e popolare, di impronta classista, che sia in grado di esercitare un ruolo critico e antagonista, intransigente e deciso, contro il regime dei banchieri, che è (per l’appunto) un’emanazione diretta e palese, persino dichiarata, di un blocco economico molto agguerrito che fa capo agli affari (di classe) del sistema bancario e dell’alta finanza internazionale, che sono evidentemente contrapposti in maniera irriducibile agli interessi del mondo del lavoro produttivo e salariato, precisamente a quelli delle classi operaie e, più in generale, delle masse proletarizzate.
Ma come e con quale durata temporale si potrà conseguire un simile obiettivo? E con quali metodi di lotta è possibile, oltre che necessario, agire per concretizzare tale progetto? Ed è un traguardo di breve termine, o di medio e lungo periodo? Sempre che sia realizzabile.
Inoltre, ammesso che lo sia, il processo dovrà e potrà svilupparsi dal basso, quindi compiersi in modo spontaneo e auto-organizzato, o dovrà essere diretto dall’alto, cioè da un soggetto politico che si configuri come avanguardia rivoluzionaria?
A tutti questi interrogativi, che non sono affatto accademici, astrusi o peregrini, ma estremamente pratici, occorre fornire una risposta.
Una risposta che eventualmente può giungere solo dal basso, ovvero dal magma incandescente delle lotte sociali e materiali.
Lucio Garofalo
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