De vulgari eloquentia
Dopo lo spiazzante colloquio con il tanto vituperato Berlusconi alla Camera e la successiva dura reprimenda rivolta agli alleati del Partito Democratico sempre dagli scranni di Montecitorio, non si arresta per Antonio Di Pietro l’opera di riposizionamento, esistenziale prima ancora che politico, all’insegna di uno stile più sobrio a tratti moderato.
Voci di palazzo raccontano infatti di un colloquio riservato nelle segrete stanze dell’Accademia della Crusca perché, dopo anni di violenza lessicale e morfosintattica, fosse finalmente raggiunta una pacifica intesa tra il leader dell’Italia dei Valori e la lingua italiana.
L’incontro, cocciutamente ma garbatamente preteso dall’ex magistrato di Mani Pulite, avrebbe visto un Di Pietro sinceramente contrito porgere le proprie scuse ufficiali all’idioma patrio e addirittura accondiscendere a tutte le pretese impostegli dai fautori della purezza grammaticale: rinuncia all’uso spregiudicato di congiuntivi strampalati, metafore ardite e subordinate sconclusionate in cambio del ritorno al volgare delle origini della nostra letteratura.
Si spiega in questo modo la risposta data dal Tonino nazionale al giornalista che, qualche ora dopo, gli chiedeva un parere in merito a un’ipotetica candidatura di Nichi Vendola a leader della coalizione di centro-sinistra.
«Giorni addietro con far dilettantesco
l’italico verbo avrei reso un pastrocchio,
ma or mi approprio del volgar dantesco
per negar la suprema potestà a un finocchio».
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