Il tocco di Re Mida
Cantami o Diva del nullocrinito d’Arcore la triste sorte che infiniti guai agl’Itali causò sin da quando, giovinetto, s’accorse che ciò che toccava, per burla degli dei, in merda si mutava.
Suoi amici libri d’eroi leggevan, e d’avventure, ma non lui, ché subito acre odor di fogna prendea la carta, in mani sue tosto resasi igienica, e usata anche; calciavan quelli il pallone, ma al cimento uno scarabeo egli parea, che in sua vita sferici sterchi spinge per li campi; l’altri bimbi traevan diletto dal costruir castelli per fate e cavalieri, ma a lui nulla riusciva, se non cloache e densi letamai.
Il denaro solo, allo sfiorar di dita, medesimo restava poiché, mi sien testimoni poeti e savi antichi, del demonio è sterco, e mutar non si puote in quel che già si è.
Solingo e scansato, nello strame e nel denaro immerso sino al mento, ormai divenuto adulto, s’avvide che television guardar potea, senza toccare. E una ne acquistò, e poi un’altra, e poi due, e cento e cento ad ingrassar magion sua. E quando poi ne fu sazia e spazio più non v’era, principiò a comprar antenne, e poi studi, e poi canali ché la moneta, come ben sappiamo, proprio non difettava.
E prima ancora alle costruzioni dedicato s’era, non certo di man sua, ché nessuno, eccetto lui, desìa l’abitar cloaca, ma architetti pagò e ingegneri e muratori e città intere edificò. Libri non potea leggere, né interesse avea nel farlo, ma editori comprò, e giornali e riviste e persin del calcio s’appagò, non nel giuocarlo, ché gl’era divieto, ma nel collezionar giuocatori e squadre.
Tatto suo fecale non cangiava sol oggetti o cose, oh no: se persona, per accidente o caso, da lui venia toccata, s’anche l’aspetto non mutava, l’animo n’era perturbato e torto. Virginal fanciulla da lui lambita, tosto femmina lussuriosa assai pareva, e a’ vizi assuefatta e usa: vita sua perdeva e null’altro doman era a lei dischiuso se non lo divenir ministra.
Uomo onesto, di leggi e tasse rispettoso, in amen divenia, al tocco suo, a tutti gli inganni rotto e cupidigie, di null’altro voglioso se non d’impilar sterco su sterco, sibben dimoniaco, piegando a sue brame leggi e decreti, regolamenti e sentenze, homini e caporali.
Di tal regno era l’imperator supremo, da’ suoi olezzanti sudditi in excelsis elevato, da sue televisioni circondato, quando, per sorte, una finestra s’aprì che dava in su la campagna. Un vento gentile, che pria carezzato avea dolci gigli de’ campi e verdi fronde dei monti e chiari e freschi ruscelli alpestri, irruppe in la merdosa reggia il tanfo spazzando e la fecal corte prostrando.
S’avvide allor l’imperator supremo che, fuor di cloaca sua, un Paese v’era, se non lindo, almen pulito e se non profumato, di certo non fetente. Intuir ciò e ragionar di come farlo fogna per intiero fu tutt’uno.
Presidente dovea diventar, e Presidente diventò e per lunghi e lunghi anni s’intraprese, il toccabile toccando. Le genti mutarono e se avante, non tutte oneste, ma almen compite erano, sfacciate divennero, e il paese cangiò e se pria del “bel” si fregiava, al suo passaggio condonata discarica divenne, sì da schifar anco lo sterminator Vesevo. Leggi avea il Paese, non tutte giuste, ma almen garbate. Qual tempesta distruttrice abbattesi su gracil capanna, sì egli tastò e manipolò norme e Costituzioni che, in breve, sua immagine e odoranza divennero.
Tutto egli toccò, e tutto il Paese cangiò. Anni passarono e un dì, alfin, riaperse quella finestra che tanti lutti provocò. Non più d’alpestri fronde, non di fresche acque di gentil rivi, ma di sozza concimaia sapeva l’aere. Pago e sazio fu allora come mai in vita sua, ché simil tra simili ormai era, e, alfin, tanfo nel tanfo.
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