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Tempi modesti

Una giornata da precario

9 ottobre 2009 - Adelmo Monachese (studente - pubblicista - autore)

Sento continuamente dire “In questa terra non c’è lavoro, se non raccogliere i pomodori” e rispondere ”Un buon lavoro, se veramente uno lo vuole, lo trova”. Certo, se lo vuole veramente uno lo vuole, e basta.
Questo, però, è un altro discorso, voglio invece parlarvi del lavoro che non c’è, della mia terra e dei pomodori. In effetti, è lo stesso discorso.
Giornate come quella che mi accingo generosamente a descrivervi non sono rare.
Mi sveglia una telefonata proveniente dall’ultima agenzia interinale per la quale ho fatto un lavoro decente (con decente intendo un contratto a termine del cazzo). Una voce dal tono circospetto mi ordina di andare da loro per ritirare il CUD. Subito. Cosa sia, a cosa serva e cosa debba farci non mi è dato saperlo.
Chi non sta usando questi fogli per controllare se la biro scorre ancora, si aspetterà a questo punto di leggere di me che chiedo spiegazioni alla signorina dell’agenzia. Oppure che me la sbatto sulla scrivania di truciolato della reception, nel caso di qualche lettore perverso o appassionato di truciolato.
Niente di tutto ciò. Quando torno in agenzia mi sento come chi si vede con la sua ex per dare/avere gli oggetti lasciati in casa dell’altro. Se ti scappano le tipiche domande da fine rapporto su come sta adesso e se ha già trovato qualcun altro, si torna casa con una forte inclinazione al suicidio perché nella maggior parte dei casi le risposte sono Ora molto bene e Si.
Mi ammanto di orgoglioso silenzio ed entro, firmo, ritiro, vado via. Così. Senza nemmeno un abbraccio.
Voglioso di solidarietà raggiungo un mio amico. Leo. Sta ristrutturando un box con l’intenzione di farne un’officina, così gli do una mano. Dopo qualche mezz’ora di fatica arriva il proprietario del buco, un vecchio gagliardo e qualcos’altro che fa anche rima. Chiede a Leo se nel pomeriggio vuole andare a fare un trasloco per lui. A questo punto vedo i due che si allontanano e sembrano confessarsi a vicenda.
Leo mi dirà poi che stava proponendo al vecchio di far lavorare anche me e che gli ha dovuto spiegare chi sono, cosa faccio, se sono un tipo affidabile. Ha dovuto dargli le mie referenze! Per spostare mobili da una posto ad un altro ha voluto le mie referenze! Non gli bastava vedere che ho le braccia.

Partiamo nel pomeriggio. La squadra è formata da Leo, me e Yuri, uomo di fiducia del vecchio. Lui è il capo spedizione. Il mezzo è un furgone bianco targato NO, più che una targa, un presagio. Tenuto alla buona, ammaccature qui e lì, e lì e lì e lì. Yuri è uguale, bianco e pieno di ammaccature.
Strada facendo l’ammaccato ci comunica la destinazione. Il luogo in questione è difficile da definire, direi agglomerato urbano se non dovessi usare più lettere di quanti edifici ci siano. Il posto, per quanto sperduto, è da tempo una specie di villaggio a luci rosse, dove vere professioniste ricevono in casa nella tranquillità e riservatezza della zona. Almeno così dice il bigliettino da visita che ho nel portafogli.
Ad aspettarci troviamo qualcosa di molto simile alla brutta copia di Jack Nicholson. Diciamo un Jack Nicholson che ha passato tutta la sua esistenza a lavorare nelle miniere di carbone invece che in compagnia di alcol, Lsd, cocaina, marijuana e due - tre prostitute alla volta. A pensarci, il Nicholson delle miniere sarebbe ridotto meglio dell’originale. Immaginate la versione che preferite.
Iniziamo il lavoro e Nicholson si sente in dovere di raccontarci la storia di quella camera da letto che man mano tornava ad essere un insieme di pannelli. Fortuna che era una storia breve. Fortuna per lui, aveva un respiro talmente intriso di catrame che tra una frase e l’altra si fermava col fiatone. Così, mentre facciamo m’ama non m’ama con le ante dell’armadio sentiamo: “E’ della mia povera sorella, nemmeno una settimana se l’è goduta. E’ come nuova, che dovevo fare, la dovevo buttare?”, non so se si riferisse alla sorella o alla camera da letto. E via così.
Ci accorgiamo dunque che oltre ad essere un’agenzia di traslochi, per l’occasione avremmo fatto anche da onoranze funebri. A una settimana dalla dipartita della poveretta la camera andava messa in casa di un’altra sorella.
Nel frattempo Leo, suggestionato dall’atmosfera, cerca di dirmi, tra una vite e l’altra, di essere convinto di aver notato in alcuni inequivocabili particolari, che la defunta avesse esercitato anche lei la professione.
“Come fai a non capire? L’hai visto quel vestito?”.
“Il vestito rosso?”.
“Si, ma che rosso, più evidente di così! E la stecca di sigarette, l’hai vista?”.
“Qui non le vendono, può darsi che ne prendeva una quando veniva in città.”
“O gliela portavano”.
“Che c’entra se gliela portavano?”.
“Il cibo in scatola. Che mi dici del cibo in scatola?”
(Ogni cosa secondo lui avvalorava la sua tesi, ma cosa ne potevamo sapere noi se un appartamento fosse o no gestito per il sesso a pagamento? Non siamo mai stati esperti di formula uno).

Arrivati a destinazione un senso di morte pervade le nostre membra. Ad attenderci, un appartamento al settimo piano di un palazzo dotato di un ascensore delle dimensioni di una gabbia per uccellini.
Allora, vi chiedo, cos’è un lutto confronto a sette piani a piedi carichi come somari? Ve lo dico io cos’è: il desiderio che ti viene intorno alla settima-ottava volta che devi ricominciare dalla prima rampa.
La padrona di casa prosegue nella tradizione di famiglia accompagnandoci durante tutta la via crucis su e giù per le scalinate con un sottofondo di commenti.
“Povera sorella mia, nemmeno una settimana nella camera nuova, poveretta! Ragazzo, il comodino è uno solo o ce ne sono due?”.
“Ce ne sono due, signora”.
“Che dolore! Con quanta cura l’aveva scelta, tutti i risparmi…com’è che sono così corti i cassetti del mobile?”
“Ora li fanno così”.

Salito tutto, ci fermiamo per un po’ di ristoro. “Acqua! Caffè!” pensai.
Liquore. Liquore a 70 gradi.
Guardai i pezzi dell’armadio accatastati a centro stanza, uno sull’altro, e pensai che quando ancora sei fatto solo da tante cellule, sei come un armadio smontato. Puoi diventare qualunque cosa, hai tutte le possibilità avanti a te, tutte. Poi capita che chi ti deve tirare su fa un lavoro di merda e sei rovinato. Un mobile da cantina, buono a ricevere solo cose troppo vecchie o troppo brutte per stare nella vetrina in salotto.

Passa un’oretta ma l’effetto della bevanda spiritata non accenna a diminuire, decido così di trovarmi qualcosa di poco pericoloso da fare. Mentre faccio finta di mettere in ordine, trovo nella cassetta degli attrezzi di Yuri un foglietto spiegazzato. E’ la copertina di una rivista per uomini con scritto: ALLUNGAMENTO DEL PENE IN DIECI GIORNI! – COME FAR AUMENTARE LE DIMENSIONI DEL PROPRIO ORGANO CON POCHI COMODI ESERCIZI. Sotto, gli appunti di Yuri: “10 cm larghezza – 25 cm lunghezza”. Glielo rendo con sguardo complice“Amico, se questa non è ambizione!”-“Ah, le misure dei cassetti,” – mi fa – “montiamo quelli e abbiamo finito”. Dopo quaranta minuti finiamo tutto e andiamo via. La cara signora ci chiede se prima di andare vogliamo farci un altro bicchierino. Rifiuto con cortesia dicendole che un bis andrebbe contro i principi della mia religione.
“Quale religione?”
“Medicina generale. Buonasera”.
Alla base ritroviamo il vecchiarzillaccio. Ci chiede com’è andata. Benissimo, che ci pagasse e alla prossima. A quel punto si fa serio “Non ho potuto chiedere più di tanto. Ho dovuto fare uno strappo alla regola, è stata una cosa improvvisa e sono cari amici”-“Tuoi, non miei” avrei voluto dirgli ma, rischiando di giocarmi la possibilità di qualche altro lavoretto, taccio. Prendo i soldi, saluto con le sopracciglia e torno a casa, stanco ma contento, venti sono meglio di zero. Venti euro che mi hanno permesso di mantenere un discreto stile di vita nell’arco di tempo necessario a scrivere questo racconto.
Ora dovrei fornirvi una bella conclusione, profonda, arguta, completa di un’analisi del mondo del lavoro. Non che non ne sia capace, ma per venti euro mi pare non possiate chiedere di più.

 

 

 

 

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