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Diario Aquilano /8

Così è la vita, nelle tendopoli aquilane
17 luglio 2009 - Alberto Puliafito

C'è un grosso tassello mancante, in questo diario aquilano. Un tassello che, ve lo dico subito, ne lascerà scoperti altri cento e più (questo il numero, variabile ma comunque sopra il centinaio) dei campi di tende in cui vivono in molti, a L'Aquila.

Per cominciare, cercherò di spiegare la situazione nella sua accezione più generale possibile. I campi sono dislocati in varie zone della città e dei dintorni, laddove possibile. Ce n'è uno accanto al centro commerciale Globo, per esempio. Ce n'è uno in piazza d'armi. Ce n'è uno in ogni spazio pianeggiante possibile.

Le tende, eccezion fatta per quelle dell'esercito, della croce rossa, della protezione civile, dei volontari, sono tutte uguali: blu, anonime, con il marchio della protezione civile e del Ministero dell'Interno. Le tende non sono monofamiliari, come molti pensano: in una tenda ci possono alloggiare dieci o dodici persone. I campi sono gestiti dalla Protezione Civile a stragrande maggioranza, e da volontari che provengono da ogni parte d'Italia. Esistono delle normative generali - di cui è difficile avere una copia scritta - e una serie di norme che cambiano da campo a campo, a discrezione del capocampo. Per esempio, le norme che regolano gli ingressi dei non residenti. L'ingresso nei campi è regolato e presidiato: occorre, generalmente, lasciare un documento. Spesso gli estranei vengono ammessi a una visita nel campo, ma rigorosamente accompagnati da un volontario della Protezione Civile. I capicampo turnano e cambiano, una volta ogni settimana o ogni due settimane. Stesso discorso vale per i volontari. Colazione, pranzo e cena sono serviti a orari predefiniti, con menù deciso aprioristicamente.

Di giorni i campi sono perlopiù desolatamente vuoti o poco popolati da persone anziane che restano sedute a chiacchierare o a far nulla e da bambini che giocano. Chi può va alle case per cercare di fare una vita un po' più normale. Chi può e ha un lavoro va a lavorare. Gli altri, evidentemente, restano nelle tende.

Le comunicazioni avvengono attraverso una bacheca. Quelle più attese sono le comunicazioni relative alle verifiche di agibilità delle case e alla divisione delle stesse in varie fasce, dalla A alla F; a volte si vedono comunicazioni relative a iniziative che riguardano la città.

A meno di iniziative personali, i campi sono isolati gli uni dagli altri. Comunicare eventi è molto complicato. In alcuni campi è vietato fare volantinaggio e comunque non sono permessi assembramenti.

Nel campo di Piazza d'Armi veniamo accompagnati per un giro perimetrale di 10 minuti da un volontario della protezione civile che ci invita a non parlare con le persone perché (dice lui) sono stanche di essere intervistate. Fuori dai campi, anche persone che vivono in tenda, superata la normale diffidenza iniziale, non fanno che raccontare e raccontare e raccontare.

Nel campo di Colle Maggio i miei colleghi non possono entrare perché non ci sono io, che ho il pass giornalistico del G8. Come siano correlate le due cose, è un mistero.

Nel campo della Stazione - che è diverso dagli altri perché la gente dorme nei vagoni letto e nelle cuccette dei treni. E, dicono, si sta meglio perché almeno c'è il riscaldamento se fa freddo o l'aria condizionata se fa caldo. Anche se certi vagoni hanno i finestrini moderni, quelli che non si possono aprire - c'è una leggera resistenza iniziale. Non si può entrare, dicono, senza autorizzazione del Di.Comac (Direzione di Comando e Controllo). Bene, dico io. Chiamiamo. Dopo pochi minuti arriva l'autorizzazione. Entriamo, accompagnati. Stessa richiesta: non si chiacchiera con la gente.

Nel campo Alenia, entriamo ma si fotocopiano i nostri passaporti e la lettera che dichiara che stiamo realizzando un documentario. Ci accolgono volentieri a pranzo e inizialmente ci viene detto che possiamo fare riprese. Poi ci viene chiesto di non farlo, perché siamo sotto G8 e l'Alenia, che è nei pressi, potrebbe essere un obiettivo sensibile.

Nel campo di Globo, entriamo facilmente accompagnati dal sorriso di due anziani volontari della Protezione Civile. Un terzo, però, più giovane e corpulento, ci ferma e ci dice che deve verificare, ché mica possono entrare tutti, nel campo (sic). Ci fa procedere, grazie soprattutto al mio pass-G8, ancora lui.
Nel campo di Globo c'è il C.I.M., il Centro di Igiene Mentale, e ci sono i pazienti psichiatrici, gli ospiti del CIM che camminano come li ho visti camminare decine di volte nei centri diurni, chiedendoti una sigaretta o guardando verso il basso. Già, perché gli stessi problemi che c'erano fuori, nella città integra, ora esistono anche nei campi, forse a questo non si pensa mai abbastanza.

Nessuna delle persone con cui parlo dice che nei campi si sta bene. Il che non significa che tutti si lamentino. Significa solo che tutte le persone con cui ho parlato si sono lamentate. Questo perché non posso dire, come ha fatto il Tg1, che "tutti" dicono qualcosa. Quello è giornalismo vergognoso, questa è onestà - Alcuni hanno espressamente richiesto di andarsene negli alberghi e denunciano scarsa attenzione da parte della protezione civile in caso di disagi. Alcuni lamentano le numerose restrizioni (fra le più assurde: il divieto di somministrare caffé - ci viene confermato dalla Pezzopane, Presidente della Provincia, il divieto di volantinaggio, il divieto di somministrare alcolici, il divieto di fare assemblee o riunioni). Quasi tutti lamentano il caldo o il freddo. Alcuni sottolineano che la vita nel campo è alienante e si chiedono se sia stato opportuno evitare il passaggio intermedio nelle strutture provvisorie per passare direttamente a case definitive. Tutti maltollerano la totale assenza di privacy e la difficoltà di circolazione delle notizie. In alcuni campi non è concessa l'installazione di punti internet con wi-fi.

Più o meno è tutto. Se questa vi sembra una soluzione (per quanto temporanea) che possa far gridare a un qualsivoglia miracolo, allora forse dovremmo rivedere tutti il concetto stesso di miracolo.

 

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